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Intervista a Maria Avolio, vittima di Mafia

 Intervista a Maria Avolio, vittima di Mafia : “…io non ho mai imposto il mio dolore agli altri, me lo sono sempre tenuto dentro e sono andata sempre avanti e andrò sempre avanti a testa alta…”

 


Nel concludere l’articolo precedente “non siamo tutte delle Rosy Abate”, si era lasciata la strada aperta a quel mondo fatto di donne coraggiose e che dicono di no alla Mafia.

La storia di oggi è una storia di ndrangheta, che ha visto combattere una donna contro tutti e tutto, contro un sistema che si nutre di silenzio e paura, che spesso ti annienta completamente minando tutte le certezze che credevi di avere.

Tutto si svolge negli anni 80, un periodo in cui in Calabria gli atti intimidatori erano all’ordine del giorno, la gente spariva nel nulla, ancora ci sono madri che non hanno una tomba su cui piangere i propri figli, la ndrangheta compie omicidi politici, allarga il suo giro d’affari, estorsioni, appalti, droga.

Nulla cambia, semmai si trasforma.

Lucio Ferrami è un giovane geometra che arriva in Calabria per lavoro, proprio in quel periodo, si innamora da subito di questa terra e di una giovane donna del posto che diventerà ben presto sua moglie.

Deciderà di rimanere per questo duplice amore, e aprirà con sacrifici un’attività edilizia in proprio, per poter vivere la sua vita in questa terra che lo ha conquistato per le sue bellezze, e perché crede fermamente nelle sue opportunità di crescita.

Questo giovane “del NORD” non riesce proprio a comprendere le dinamiche e la cultura mafiosa che da sempre ci rende schiavi ed omertosi. Allora decide di ribellarsi ad un sistema estorsivo che era ben consolidato nel territorio del Tirreno cosentino.

Scelta coraggiosa, ma che segnerà il suo destino. Lucio viene ucciso in un agguato ben architettato, la sera del 27 ottobre del 1981, mentre fa rientro insieme alla moglie Avolio Maria presso la sua abitazione.

Maria riesce ad uscirne “quasi indenne” se così si può dire, perché protetta dal corpo del marito e perché i sicari la credono morta.  Rimasta viva dopo quell’attentato di mafia, in nome di una giustizia che, ahimé, non sempre si concretizza con dei fatti, ma a volte rimane un mero concetto astratto, decide comunque di lottare e di andare avanti.

Si è deciso, come Casa delle Donne, di intervistare Maria per conoscere qualcosa in più della sua storia. Mi accoglie a casa sua dove, inevitabilmente, gli occhi cadono su dei quadri che portano la firma del marito. Mi racconta che Lucio era una persona creativa, con un animo nobile e che l’idea di dipingere gli venne la prima domenica dell’austerity, periodo in cui si era costretti a rimanere in casa per via della circolazione delle autovetture a targhe alterne.

È inutile dirvi che i quadri non fanno altro che raccontare una storia d’amore, sicuramente durata poco ma comunque molto intensa.

Ci sediamo sul balcone di casa, immersi nel verde, non so da dove cominciare, non è semplice, già nei suoi occhi scende un velo di tristezza, le chiedo se le va di raccontarsi, con lo sguardo mi dice di si.

Maria, come è stato il dopo di quella tragedia che ha spezzato una vita, un legame, un sogno? Cosa ha pensato quando ha razionalizzato cos’era successo?

Una tragedia così grande ti sconvolge e non riesci a capacitarti, ma devi continuare a lottare perché ti rendi conto che hai perso tutto, ma con due bambini capisci che non hai scelta. Magari prima me ne sarei andata. Io volevo andare via, ma Lucio continuava a crederci nella nostra vita qui e alla fine ho cominciato a crederci anche io, pur conoscendo le negatività della mia terra. Si, prima me ne sarei andata, ma poi no, bisognava rimanere per chi aveva dato la vita. Così decisi di portare avanti quello che avevamo iniziato insieme.

Ma era veramente difficile, fu difficile persino trovare un avvocato che si occupasse del caso.

Quindi una giovane donna con due bambini che si ritrova da sola e che non riesce a trovare nemmeno un avvocato che la difenda? Così tanta paura c’era in quel periodo? Cosa avvertiva dall’altra parte? 

Beh si, provai all’inizio a contattare un avvocato che già conoscevo, ma quando mi ricevette mi chiese subito chi fosse disposto a costituirsi parte civile e io risposi con molta naturalezza: “IO”. 

Mi disse, senza pensarci su un attimo, che non andava bene e che essendo a Cetraro…, insomma non era, per così dire, prudente.

E quindi cosa decise di fare, visto che tutti la scoraggiavano ad andare avanti?

Pensai che forse dovevo provare con qualcuno che non fosse del posto e che non potevano voltarmi tutti le spalle. Così chiamai l’avvocato Azzariti di Catanzaro.

Ricordo che portai con me il mio primogenito, Pierluigi, che aveva appena 9 anni.

L’avvocato, un uomo già grande d’età, mi colpì subito per i suoi modi pacati, quasi paterni e poi c’era la moglie, una donna premurosa che si prese subito cura di mio figlio. Mi disse che dovevo raccontargli tutta la storia e tutta la verità. Io lo feci e lui ascoltò molto attentamente, allargò le braccia e mi anticipò le sofferenze che avrei avuto, disse che avrebbero infangato il mio e il nome di mio marito, che mi avrebbero fatto terra bruciata intorno, che la gente avrebbe evitato di venire nel mio negozio, insomma che mi sarei dovuta aspettare qualunque cosa. Si avverò tutto e non mi venne risparmiato nulla. Ma in quel momento ero determinata ad andare avanti, sicuramente l’avvocato aveva già deciso, ma ricordo che la moglie, apostrofandolo con un vezzeggiativo, lo guardò e disse: “Vevè se puoi devi aiutarla, lo devi fare per questa creatura”. Lei capì la sofferenza. A quel punto io le dissi che le creature erano due. Cominciò così il nostro cammino insieme.

Come ha gestito tutto il periodo del processo, cosa diceva ai suoi figli?

Ho sempre parlato loro del processo, certo per quel che si può dire a due bambini piccoli. In ogni modo cercavo di farli vivere tranquilli per quel che fosse possibile.  Cercavo di mantenere le stesse abitudini di quando c’era anche il loro papà. A volte, confesso, che la voglia non c’era neanche per fare le cose più banali, ma la serenità in casa era importante. È stato un periodo molto brutto, stavo molto attenta. Ricordo che lasciavo la macchina distante ed entravo sempre sola, mettevo in moto e solo dopo facevo salire i miei figli. Subimmo molti furti sia in casa che al negozio, una volta mi avvertirono che avevano sparato alle vetrine e di notte andai a coprire i fori con degli adesivi che avevano i bambini, per evitare che la gente li vedesse e avesse paura.

Come è riuscita a mantenere in vita l’attività in quel periodo complicato che l’ha vista ad affrontare situazioni più grandi di lei? Quali erano le difficoltà?

Le difficoltà erano tante, ma anche la forza era tanta. Il pensiero di mio marito e dei miei figli mi davano questa forza e ho sempre portato avanti il nome di Lucio. Quando hanno tentato di farmi chiudere, ho pensato che se un giorno lo avessi fatto sarebbe stato per mia volontà e non perché me lo avessero imposto gli altri. Volevano distruggermi come donna, come tutto.

Però devo anche dire che c’è stata molta gente buona con noi, da cui ho avuto solidarietà, e ne ho avuta anche dalle ditte e dalle aziende, che mi diedero la possibilità di riprendermi e di dilazionare i pagamenti. Scrissi una lettera a tutti dicendo che avrei pagato e che non mi sarei tirata indietro. Sarebbe stato più facile dichiarare fallimento, ma vengo da una famiglia di operai e sono stata abituata all’onestà. Certo era pur sempre un’attività che era partita da appena un anno e le difficoltà c’erano, ma onorai tutti i miei impegni.

Tra mille problemi lei, quindi, è riuscita per lungo tempo a conciliare impegni di famiglia e attività lavorativa.

Ha dei rimpianti?

No, rimpianti no, però sono dispiaciuta, perché a distanza di anni sento delle storie ed è come rivivere quello che abbiamo vissuto noi, la mia famiglia. Perché in Calabria è cambiato poco o nulla. E mi dispiace perché potrebbe essere una bella Terra.

Vuole dire che viviamo, forse, solo una quiete apparente?

Non lo so, probabilmente ci sono altri metodi, ma non mi interessa più, vorrei solo che pensassero al male che hanno fatto.

 

Può affermare che rimanere vivi, dopo un’esperienza del genere, equivale a dire che se ne esce indenni perché si è rimasti in vita? 

No, non se ne esce indenni. Perché non vivi più, non vivi più la stessa vita, ne vivi un’altra. C’è sempre una presenza tutti i giorni e rivivi spesso quei momenti e il dolore non passa. Si fa finta e si avanti. Io non ho mai imposto il mio dolore agli altri, me lo sono sempre tenuto dentro e sono andata sempre avanti e andrò sempre avanti a testa alta, sono gli altri che devono abbassare la testa e lo sguardo e vergognarsi se ne sono capaci.

 

A/F

 

 

 

 

 

 

 

 

Commenti

  1. Una grande Donna, auguro tutto il bene del mando a Lei e ai suoi figli.

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  2. Una donna dal sorriso dolce,calma e tranquilla che nasconde una grande forza...quella forza che le ha permesso di affrontare tante tristi avversità senza mai piangersi addosso! Sono felice di essere sua amica!

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